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Il vissuto della morte

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Nella nostra società le emozioni più forti vengono vissute con un senso di vergogna e di insicurezza e giudicate dalla collettività come manifestazioni di debolezze e fragilità. Perciò ci si abitua gradualmente a reprimerle. 

L’incontro con la morte è per l’uomo occidentale il più feroce dei dolori. Il lutto racchiude il dolore per la perdita di una persona cara con la quale si era stabilito un legame d’amore ma anche di empatia, di solidarietà. La morte è quel cadavere, ha un volto e una consistenza fisica. Fino ad un minuto prima quel corpo dava risposte alle nostre domande, stringeva la nostra mano. Ora è muto e immobile. 

Quando una persona muore si rivive la sua morte, il ricordo del giorno in cui se ne è andata, quando non ha risposto all’ultima domanda che gli comunicava l’incapacità di vivere rimanendo senza di lei, soli come bambini indifesi. Quella morte rimane per sempre e si ripete infinite volte. È la memoria dei sentimenti, di vissuti particolari: il tempo e lo spazio si attenuano e si dilatano gli sguardi, i silenzi, quella frase non detta, quel sospiro ricco di messaggi. 

In quel momento moriamo anche noi e sopravvivere al nostro caro vuol dire caricarlo nella bara della nostra memoria. Ciò alimenta anche il senso di colpa, non solo per la rabbia che la sua scomparsa genera (perché ci ha abbandonato), ma anche perché sembra impossibile poter tornare a godere della vita, riprendere ad amare e ad amarsi; ciò è visto come un tradimento. Il dolore nasce per dover vivere senza quell’aiuto, quell’amore, quella presenza. 

Quando l’altro scompare, non svuota lo spazio della sua presenza, ma lo pervade ancora più intimamente: dal momento del suo decesso, tutto ci parla di lui; l’assenza diventa così una modalità di esperienza. Si tratta di un dolore così forte che occorre esorcizzarlo, perciò le culture rendono meno doloroso il distacco creando il mondo dei morti e i rituali specifici legati al momento del trapasso.

 

Attraverso la morte degli altri ognuno fa esperienza anche della propria morte. Il dolore del lutto non è solo da legare all’altro, ma ci riguarda anche direttamente, poiché nella morte dell’altro si rispecchia la nostra. È impossibile, di fronte alla scomparsa altrui, dimenticare che quell’orrore attende anche noi e che in quella stessa rigidità inespressiva e in quel silenzio saremo anche noi, magari fra non molto. In quel morto vediamo noi morti e in quella fine la nostra fine. Un tormento per l’altro che diventa anche il nostro dramma, come se già soffrissimo per il nostro lutto. 

 

Dolore della fine è anche lutto di una parte di noi stessi: l’elaborazione della perdita implica la fatica di dover lasciare morire quelle parti di noi che abbiamo affidato all’altro. La morte che ci nega l’essere che amiamo, nega al tempo stesso anche un pezzo di noi: non sarà più possibile essere e amare come eravamo ed amavamo con quel partner. Si tratta della caduta di uno sguardo, di una persona e anche della caduta di un centro, di una sorgente personale di possibilità che noi stessi eravamo con l’altro. Ciò che eravamo con l’altro, ciò che pensavamo di fare con lui, quelle parti di noi che solo attraverso l’altro riconoscevamo, accettavamo e amavamo, vengono seppellite. Così scivoliamo in un’enorme disperazione perché è la consapevolezza di essere pensati che ci dà sicurezza e ci permette di immaginare il nostro futuro. Questo concetto viene espresso in modo semplice e chiaro da Pirandello. Quando sua madre morì, lo scrittore si trovava in Germania, per cui trascorsero alcune ore tra il decesso e il momento in cui egli ricevette la notizia. Ecco cosa scrisse: 

 

“In fondo, nel tempo che è intercorso tra la morte di mia madre e il momento in cui l’ho saputo, io ho continuato a pensarla viva. Questo significa che dentro la mia mente può vivere indipendentemente dal fatto che viva realmente. Questa constatazione mi fa comprendere che io posso continuare a far vivere mia madre dentro di me anche se lei non c’è più. Ma proprio questo mi fa pensare che la morte di mia madre significa che lei non potrà più pensare a me nella sua mente. Così io non incontrerò più nella vita una persona che mi possa guardare con gli occhi con cui mi guardava mia madre. Sono morto dunque io dentro mia madre”. (cit. in Fornari 1985, 159-160 ). 

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Questo è uno dei dolori più intensi che si possano provare: è veramente la nostra morte attraverso quella altrui. I vissuti di paura, di terrore, rimandano sia ad un’esperienza di morte fisica, di consunzione e decadimento totale della materia, sia ad un’esperienza di morte psichica, di annullamento, annientamento, svuotamento assoluto. 

 

L’angoscia della morte è l’angoscia fondamentale dell’essere umano: tutte le altre paure che lo perseguitano sono variazioni sul tema ossessivo di questa grande paura. 

Per questo la religione ha sempre offerto prospettive di rigenerazione e speranze (Jung, 1963). Ma oggi l’uomo è solo, assolutamente solo perché nella società industrializzata la religione ha perso la sua importanza. Quello da cui l’uomo moderno fugge è il limite della sua vita, il riconoscimento e il confronto della sua stessa caducità. Se questa è l’illusione in cui viviamo, nessun tipo di generalizzazione sarà mai abbastanza efficace di fronte all’insanabile ferita che un lutto, psichico o reale, può apportare alla nostra esistenza. Ci ritroviamo senza risposte dinanzi ai drammi che avvengono fuori di noi e dentro di noi. 

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